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Storie di vita

Storie di vita

M. (Nigeria)

M. è arrivata in Italia nel 2016, dalla Libia è sbarcata nelle coste calabre: appena arrivata si è sentita male ed è svenuta, per cui è stata ricoverata in ospedale.

Il suo calvario, oltre al terribile viaggio, è stato dal dicembre 2015 al giugno 2016, quando è stata rinchiusa in un’abitazione in Libia con altre venti ragazze. Non abbiamo mai chiesto a M. di raccontare ciò che ha subito in Libia. Non abbiamo mai voluto farle altro male.  I lager libici sono chiamati “centri di accoglienza”, da politici italiani che non vogliono vedere l’orrore e la corresponsabilità sulle atrocità di cui sono stati vittime i migranti. In questo lager M. ha conosciuto un ragazzo che l’ha aiutata a fuggire facendola imbarcare per arrivare in Italia.

La fuga dalla Nigeria è stata una scelta obbligata in quanto il suo patrigno, il papà di suo fratello, aveva deciso che era arrivato il momento per lei di partecipare ad un rituale e subire mutilazioni genitali. La sua mamma, di fede cristiana, per proteggerla aveva detto al nuovo marito che le mutilazioni le aveva già subite da piccola. Il giorno fissato per il rito, M. è fuggita di casa ed ha abitato per alcuni giorni in una scuola abbandonata; il fratello le portava da mangiare di nascosto dalla sua famiglia. Nelle vicinanze della scuola ha conosciuto una signora che poteva aiutarla ad arrivare in Libia dove poteva lavorare: la signora non ha mai parlato delle sofferenze a cui sarebbe andata incontro in questo pericoloso viaggio, e non le ha neanche detto che il lavoro non esisteva.

Comunque tale viaggio rimaneva l’unica via di fuga. M., come molte altre ragazze, non voleva venire in Italia, non sapeva che cosa era l’Italia; sapeva che oltre l’acqua c’era un paese di cui non conosceva nulla, ma dove avrebbe potuto ricominciare la sua vita, dopo tante sofferenze.

 Al momento del suo arrivo in Italia, M. è stata accolta in un centro per richiedenti protezione internazionale ed è stata ospitata dal luglio al dicembre 2016. Si è allontanata per tre giorni ed ha perso la possibilità di rimanere in accoglienza. Grazie ad una amica con la quale aveva dei contatti su FB, ha ricevuto ospitalità nella sua casa a Cuneo dove viveva con la famiglia. L’amica, dopo un breve periodo, ha lasciato l’Italia insieme a tutta la sua famiglia e M. è stata accolta da una famiglia liberiana, per 2 anni e 5 mesi; loro l’hanno aiutata anche a rivolgersi ad un legale per poter ottenere i documenti per soggiornare in Italia.

Nel 2019, M. ha preso in affitto una casa e lavorava senza contratto in un condominio facendo le pulizie. Mentre era ospitata a casa dalla famiglia liberiana, M. ha conosciuto suo marito T. che viveva a Perugia, e l’aiutava anche economicamente inviandole del denaro. Si sono incontrati sia a Cuneo che a Perugia e poi, quando M. era incinta di cinque mesi, ha lasciato il lavoro. Il 20 febbraio 2020, M. ha smesso di lavorare e si è fatta aiutare dalla Caritas.

Il marito a Perugia era accolto da una associazione,  che non aveva possibilità di ospitare l'intero nucleo familiare; è per questo che la Prefettura di Perugia ha chiesto l’accoglienza presso il nostro progetto diocesano.

Per due anni la famiglia di M. è stata accolta in un appartamento con il marito e i due figli.

M. ha superato, grazie alla famiglia creata, molte delle sue sofferenze. La famiglia e la sua nuova vita l’ha fatta sentire forte. Il dolore più grande è quello di non avere notizie della famiglia di origine e di non parlare dal 2017 con suo fratello. Nell’ultima telefonata, il fratello le aveva detto che la donna che l’aveva portata in Libia aveva contattato i suoi, per comunicare che il debito del viaggio in Libia non era stato pagato e che la stava cercando.

 Ad aiutarla in questo percorso di liberazione è stato fondamentale il discorso del sovrano del Benin, avvenuto il 9 marzo 2018, con il quale ha eliminato i riti “vudù” che vincolano alla schiavitù sessuale le donne vittime della tratta di esseri umani, discorso che ha permesso a molte donne, soprattutto di nazionalità nigeriana, di liberarsi.

Per noi operatori dell’accoglienza, M. è un esempio, per come si prende cura quotidianamente dei suoi due bambini e per la precisione nel fissare appuntamenti medici e nel seguire le prescrizioni e i consigli del pediatra.

Dopo una lunga attesa, per M. è arrivato dal Tribunale il riconoscimento della “protezione speciale”. Hanno dovuto lasciare il progetto diocesano e trasferirsi in un SAI, molto lontano da Perugia. Non è stato un problema, poiché M. ha capito l’importanza di proseguire il viaggio di integrazione in Italia, e l’importanza di fare di nuovo tanta strada per raggiungere questo traguardo.